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» » » LUGLIO 2021 PAG. 18 - Multicanalità per finanziare la transizione dello shipping

 

 

 

Tra i grandi cambiamenti che hanno investito lo shipping italiano in quest’ultimo decennio c’è anche la diversificazione dei canali di finanziamento. Partiti in ritardo rispetto alla concorrenza internazionale gli armatori italiani hanno cominciato a guardare con interesse anche ai sistemi alternativi a quello, tradizionale, della banca. Fenomeno che sta portando allo sviluppo di una “multicanalità” che secondo Fabrizio Vettosi, vicepresidente della commissione finanza e diritto d’impresa di Confitarma, potrebbe aiutare l’adeguamento della flotta italiana nella fase di transizione ecologica che ci aspetta.

In che modo la finanza sta accompagnando il settore dello shipping?

Oltre al tradizionale settore bancario ci sono altri tre motori in grado alimentare il cluster. In primis, il segmento costituito dagli intermediari, sempre più coinvolto nelle strategie dell’armamento. Poi c’è il pubblico, penso al ruolo di un attore come Cassa Depositi e Prestiti, che dovrebbe dare un’ulteriore spinta agli investimenti del privato. Infine il risparmio privato. L’Italia ne ha un livello pro-capite superiore alla stessa Germania. Complessivamente tra beni privati e beni pubblici, sottratti i debiti, sediamo letteralmente sul patrimonio più grande tra i paesi occidentali avanzati. Ma abbiamo ancora difficoltà a impiegarlo. Di fatto lo shipping nazionale ha a disposizione una molteplicità di soluzioni di accesso alla finanza, in grado di accompagnarlo nella transizione che, tra parentesi, è diventata norma dal giugno scorso con l’introduzione del regolamento 852.

La legge sulla tassonomia che considera lo shipping un settore transizionale…

E che ci impegna in un obbligo temporale fino al 2025 per ottemperare al “Technical Screening Criteria”, ovvero a quei principi di natura qualitativa che motivano l’inclusione di un’attività all’interno della tassonomia. Personalmente, considerando il ruolo della finanza, penso che dovremmo attivare uno strumento per mettere a fattor comune i quattro motori di cui parlavo prima nell’ottica di dare al settore la dignità di vera e propria infrastruttura.

Non è così?

Certo che no. Se si guarda il PNRR emerge chiaramente che le risorse più importanti sono stanziate per la strada e la ferrovia, in un’ottica che guarda, anche giustamente, al combinato modale. Ma l’infrastrutturazione di un sistema non comincia in banchina ma in mare, a bordo delle navi. E le risorse a disposizione sono a dir poco esigue. Se una nave non riesce ad adeguarsi all’evoluzione tecnologica non ha senso puntare sul “cold ironing”. Soluzione su cui, tra l’altro, bisognerà essere molto attenti a come si distribuiscono i finanziamenti. 

Perché?

Dividere la somma a disposizione per ogni porto italiano significherebbe semplicemente allocare le risorse in maniere non efficiente. Ci saranno porti e linee in cui questa tecnologia non sarà mai impiegata perché semplicemente non ci saranno navi attrezzate. Quando a Goteborg il cold ironing è stato proposto per la prima volta, nel 1994, il primo passo degli amministratori del porto è stato quello di assicurarsi presso gli armatori la presenza di navi predisposte al servizio. 

Quale la soluzione preferibile? 

Serve una visione complessiva adeguatamente tecnica, indipendente dalla politica, in grado di fare soprattutto l’interesse della logistica. Quest’ultima è come l’acqua: trasparente. Non cambia colore a secondo di come cambiano i governi. Trovo controproducente il fatto che nei progetti dedicati ai porti si registrino cambi di direzione improvvisi, repentini. Si tratta pur sempre di soldi nostri. A Napoli sulla Darsena di Levante ci sono 350 milioni di euro bloccati da quasi 20 anni. E il tempo, si sa, è denaro: non va sprecato.

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