Non solo treni e autostrade per sostituire le piste polverose lungo le quali si è viaggiato per secoli sul dorso dei cammelli. La nuova Via della Seta o, per essere più precisi, la Belt and Road Iniziative, ha una portata universale: rappresenta il modo in cui la Cina sta declinando il passaggio di consegne alla guida della globalizzazione. Una visione complessiva che riplasma il mondo e i rapporti tra le sue parti secondo quel concetto di “geografia funzionale” che il geopolitico Parag Khanna ha innestato nel cuore dei suoi studi sulla connettività. Soprattutto, il tentativo di una nuova narrazione del futuro che vede in Riccardo Fuochi uno dei protagonisti della prima ora. Presidente dell’associazione Italia – Hong Kong e del Propeller di Milano, l’imprenditore milanese è impegnato da alcuni anni in un’opera di approfondimento e divulgazione delle tematiche legate alla BRI che in definitiva cerca di fornire indicazioni a una domanda di carattere strategico: quale ruolo vuole svolgere l’Italia nel nuovo quadro mondializzato che si sta delineando? Interrogativo riecheggiato anche nel corso del convegno “Da Marco Polo a Xi Jinping: la via della seta ieri e oggi”, promosso dal Propeller di Napoli, nel quale Fuochi ha illustrato con dovizia di dettagli le implicazioni legate agli innumerevoli progetti che compongono la BRI. Introdotto da un intervento di carattere storico della professoressa dell’Università degli studi di Napoli L’Orientale, Paola Paderni (“Via della Seta è una definizione postuma, un concetto inventato alla fine dell’ottocento dal geografo tedesco Ferdinand von Richthofen per descrivere una realtà di rotte commerciali attive dai tempi dell’antica Roma fino al Rinascimento”), l’incontro, ospitato dalla locale sede della Lega navale, ha fatto chiarezza sulla estrema varietà dei programmi in corso. “Non si tratta solo di servizi di trasporto tra Europa e Asia – ha spiegato Fuochi – ma di attività che coinvolgendo anche Sud America, Stati Uniti e Africa coprono settori come l’agricoltura, le risorse energetiche, la manifattura avanzata, la sanità o il turismo”. Colossali le cifre in campo: 62% della popolazione mondiale, 34% del commercio internazionale, circa il 31% del Pil mondiale, 8 triliardi di dollari di investimenti previsti in infrastrutture. Al cuore del remapping continentale, ovviamente, i 6 corridoi economici previsti sulla direttrice euroasiatica cui “si aggiungerà un settimo corridoio mediorientale per l’approvvigionamento delle risorse energetiche”. “Il costo del lavoro si va livellando anche in Cina e molte produzioni vengono collocate in regioni lontane dal mare. Accorciandosi le distanze l’utilizzo della modalità ferroviaria diventa sempre più attrattiva”. Una strada su cui Pechino sembra aver puntato con decisione “finanziando le tratte di collegamento fino a 2000 dollari per bilanciare i costi ancora troppo alti”. Una vera e propria scommessa che sta suscitando un fermento di iniziative anche in Europa. Nei primi giorni di marzo è partito il primo treno tra Amsterdam e Cina mentre il collegamento italiano da Mortara, sospeso dopo gli annunci di inizio anno, “potrebbe riprendere a breve – ha rivelato Fuochi – con l’impegno garantito da CMA CGM, player ansioso di inserirsi in questo contesto da esplorare”. In un quadro previsionale che stima il valore delle merci trasportate su ferro pari a 76.5 miliardi di dollari nel 2020 la filiera multimodale italiana, al servizio della seconda manifattura del continente, è chiamata ad adeguarsi in breve termine. “Il porto fluviale di Duisburg è diventato il punto di riferimento logistico per il centro Europa seguendo un semplice assunto: le merci vanno dove ci sono le migliori condizioni di distribuzione sul territorio. È una filosofia che dovrebbe ispirare anche il sistema italiano. Abbiamo bisogno di pochi centri logistici in grado di trattare e ridistribuire la merce in un’ottica di integrazione”. Una ricetta per intercettare i benefici della BRI che non può prescindere anche da un riposizionamento strategico dei nostri porti. “La via marittima metterà in collegamento tutti i paesi in cui la Cina sta delocalizzando parte della propria produzione e non esiste uno scalo che può ambire al ruolo di unico capolinea della Via della Seta: bisogna candidarsi e in prospettiva, oltre a Instanbul, Venezia e il Pireo potrebbero giocare un ruolo importante anche Trieste, Taranto o Genova. Purtroppo manca un progetto coordinato e si va in ordine sparso”.
Giovanni Grande